Dispensa sul componente Cibernetico
a cura di Augusto Iossa Fasano Con la collaborazione di Sara Sacchetto e Valentina Giannella
Nozione di Protesi e Identità Psichica del Soggetto
Sigmund Freud ha collocato l’Hilfsapparat, apparecchiatura ausiliaria, come è tradotto in italiano il termine nell’opera omnia, nella direzione del progresso scientifico e del necessario potenziamento degli organi sensori e motori richiesti all’uomo. Tale strumento, dunque, integra ciò che manca al corpo “nudo” dell’individuo rendendo possibile, in tal modo, la complementarietà uomo-macchina. Nel “Notes magico”, del 1924, e nel “Disagio della civiltà” del ’29, l’Hilfsapparat viene correlato al funzionamento della psiche sul versante dell’apparato percettivo e motorio nell’individuo.
In “Nota sul notes magico” Freud afferma che: “Le apparecchiature ausiliarie, inventate per migliorare o rafforzare le nostre funzioni sensoriali, sono tutte costruite come l’organo di senso interessato o parti di esso (così gli occhiali, la camera fotografica, il cornetto acustico etc.). Se le confrontiamo con queste apparecchiature, le procedure intese a soccorrere la nostra memoria appaiono particolarmente carenti, giacchè il nostro apparato psichico ha una capacità illimitata di ricevere nuove percezioni e di trarne al tempo stesso tracce mnestiche permanenti, se pure non immutabili”.
E ne “Il disagio della civiltà” aggiunge: “Con gli utensili di cui entra in possesso, l’uomo perfeziona i suoi organi – motori e sensori – oppure sposta le frontiere della loro azione. I motori gli mettono a disposizione forze immani, le quali, come i suoi muscoli, possono essere impiegate in qualsiasi direzione; navi e aeroplani fanno sì che nè l’acqua, nè l’aria possano più ostacolare i suoi movimenti. Con gli occhiali egli corregge i difetti delle lenti del suo stesso occhio, col telescopio scruta spazi immensi, col microscopio sconfigge i limiti posti alla visibilità dalla struttura della retina. Con la macchina fotografica ha creato uno strumento che fissa le impressioni fuggevoli della vista”.
Finzi Ghisi predilige il termine protesi che, a partire dall’Hilfsapparat freudiano, le consente di aprire un campo radicalmente nuovo sul piano della cura e della teoria.
La nozione di protesi è stata ricollocata in una posizione decisiva in rapporto alla questione soggetto-apparato psichico-spazio esterno da Virginia Finzi Ghisi che, anche a questo proposito, opera una revisione del pensiero freudiano: “La mia protesi – sostiene – non è un completamento ma qualcosa che sta alla radice dell’identità. (…) La nostra protesi entra all’inizio, all’affacciarsi dell’angoscia che coinvolge per il piccolo Hans e per esteso per chi si affaccia a ciò che ho chiamato il “luogo della fobia”, il dilemma terribile sull’animato e sull’inanimato. (…) La protesi che viene dopo appartiene all’ortopedia e ha dei tratti naturalistici, la protesi che viene prima appartiene al design .” (cc.mm.)
L’artificio, inteso, come abbiamo appena visto, in quanto innesto della protesi, ovvero di un corpo inanimato sul corpo vivo del soggetto, consente all’apparato psichico di strutturarsi e di funzionare o, all’occorrenza, di ristrutturarsi. L’uso della protesi occupa quindi un posto anche nella riabilitazione e cura dei soggetti con disturbi psichici gravi. Questo genere di artificio, che tornerebbe utile nel lavoro terapeutico e riabilitativo territoriale, sfugge, di solito, all’attenzione dello psichiatra.
Il diverso uso che della protesi fanno il nevrotico, il perverso e lo psicotico contribuisce a distinguere queste tre grandi categorie psicopatologiche e a differenziare il tipo di intervento .
Un artificio protesico ricorre nelle rappresentazioni figurative della vita quotidiana: ne ho reperite nell’opera pittorica di Johannes Vermeer, artista del ‘600 olandese, nella scultura di Louise Bourgeois e nel cinema contemporaneo di Daniele Ciprì e Franco Maresco.
Finzi Ghisi ne fa una nozione decisiva nella psicoanalisi, nella cultura contemporanea e nella vita di ogni giorno:
“La storia del soggetto si fa attraverso la ‘protesi’, che non è un oggetto supplementare a una mancanza, ma l’impalcatura stessa cui si rifà l’apparato psichico. La protesi è necessaria per vivere, come la sedia per lo studio di Van Gogh non era un oggetto per un quadro da dipingere, ma il mezzo per dipingere il quadro, e la sedia del piccolo Hans mantiene misteriose relazioni attraverso il fapipì che le manca con la possibilità di definire il ‘vivente’.[…] Ma c’è un altro funzionamento della protesi, tessuto a quello che ci ha tracciato ora Svevo.
La protesi non si fa rappresentazione, ma cresce nel corpo fino anche a impadronirsene, e finché la protesi occupa una gamba possiamo rimanere nell’ambito della nevrosi d’isteria, quando piuttosto che divenire rappresentazione si fa rappresentativa, siamo nel campo della perversione, quando dilaga a coprire l’intero organismo allora sì la catastrofe è vicina e possibile, ma non è certo la catastrofe che porta a questa pulizia invocata. L’illusione di una salute che esca dalla catastrofe è l’illusione di una follia comandata, è una follia letteraria. […]. La mostra della protesi che la fila di reduci offre agli sguardi degli astanti chiarisce la sua natura. Non è solo una gamba innestata nel punto in cui la propria gamba è stata tagliata, non è solo la mano di ferro e l’articolazione del gomito, non è solo la calotta cranica o la mascella spazzata via dallo scoppio. La protesi è l’intera manifestazione esterna dell’apparato psichico, è tutta la rappresentazione che zio Tobia struttura in fondo all’orto […]; giacché la sua funzione non è solo quella supplettiva di una mancanza comparsa a un certo punto, ma tende a restaurare un intero che tuttavia fin dall’origine è impossibile.
La protesi si collega a questa origine, che è l’origine del soggetto come ‘metà’ del nome del padre, e in una frammentazione minacciosa e disseminatrice di cui stiamo cominciando a decifrare la natura. È a questa origine che si rifà la ripetizione. Che è, essenzialmente, il riprodursi della prima rappresentazione esterna dell’apparato psichico: la protesi riguarda questa impalcatura del soggetto, la figura del reduce e non del guerriero è quella rappresentativa della guerra che si inscrive nella ripetizione, e ci illustra il funzionamento dell’alternanza tra salute e malattia. […] La protesi opera il congiungimento tra l’uomo e la natura […] La ferita interrompe questo congiungimento […]” (La protesi va alla guerra, p. 349).
Forma e riforma delle cose visibili, come di qualcosa che non lo è immediatamente: un apparato psichico comprendente quell’area inconscia occasione di salute, l’Es, che Freud mutua da Groddeck. Virginia Finzi Ghisi e Sergio Finzi riconfigurano la psicoanalisi come antropologia.
La psicoanalisi freudiana non è più solo un sapere a proposito della mente fondato sull’incontro tra paziente e analista in una stanza dove l’analista interpreta i significati delle formazioni psichiche e delle altre produzioni mentali del soggetto, ma diviene un’esperienza di cura e ricerca che contribuisce a restituire unità e molteplicità al singolo e alla socialità al crocevia tra natura e civiltà (Kultur).
Questa nuova proposta di psicoanalisi avanza la sua scommessa dentro e fuori la stanza di analisi, dimostra l’esistenza di una forza autopoietica nelle cose della natura, nel loro evidenziarsi, come nelle diverse forme di lavoro psichico che la quotidianità, per un verso, e l’opera d’arte su di un altro canto, contengono e veicolano nella civiltà umana.
Finzi Ghisi ha riconsiderato la protesi come fondante la struttura dell’apparato psichico e il pensiero – la possibilità di pensare – sottolineandone il rapporto con la pulsione e con la ripetizione (cronicità). Quest’ultima, che sappiamo essere prossima all’istinto di morte, d’altro canto, può contribuire alla costruzione di difese sane nella soggettività proprio a partire dalla routine quotidiana.
L’artificio nel suo punto di giunzione all’elemento naturale inteso come innesto della protesi, ovvero di un corpo inanimato sul corpo vivo del soggetto, consente all’apparato psichico di strutturarsi e funzionare o, all’occorrenza, di ristrutturarsi.
Inoltre, i prolungamenti protesici dell’impianto psico-fisico dell’uomo costituiscono, da un lato, materia di analisi che produce conoscenza, dall’altro lato, cura che reintegra le possibilità di vita e di incontro . Siccome l’utente ha occasione di accedere ai vari prolungamenti (stilografica, pennello, occhiali, personal computer, agenda elettronica e non, e utensili vari), diviene necessaria una attività di kontroll proposta dal gruppo di supervisione, inerente alla programmazione assistenziale e riabilitativa, nel senso antropologico prima che psicoanalitico.
Quando si dice gli arnesi del mestiere non ci si riferisce al senso figurato, ma al referente materiale – corpo e cose – oggetti concreti, con il duplice rischio: il primo, inevitabile nelle fasi iniziali della relazione con pazienti gravi e regrediti, di lasciare che l’utente intenda e consideri l’operatore come suo limite regolatore e barriera dall’angoscia sul piano fisico, il secondo che la protesi, penetrando all’interno del corpo del soggetto, perda le sue proprietà e lo trasformi in cyborg. E’ questo il caso della chirurgia plastica a scopo estetico, dei trapianti, degli impianti di chips, pompe e altre apparecchiature poste internamente alla superficie corporea e delle somministrazioni croniche di sostanze chimiche di sintesi, tra queste gli psicofarmaci specie nella forma depot o retard.
Sappiamo cosa è un soggetto protesico, l’uomo è un animale protesico, l’individuo occidentale sano o sanabile non può farne a meno al pari dell’innesto per un fusto selvatico. Diversamente, non dà frutto, nel caso dell’uomo il prodotto è il pensiero.
Non è dunque questione di preclusione o di posizione morale, ma di incognita. Non conosciamo ancora la forma del pensiero del soggetto cyborg, le sue vicende di vita, affetti e morte, malattia e salute.
Psicoanalista e operatore – di base, intermedio o terapeuta (per ora solo medici e psicologi) – posseggono identità distinte e differenziate, ma l’uno e l’altro mestiere non si possono esercitare se non si prevede un secondo passaggio, una ulteriore fase di lavorazione: la supervisione o kontroll. Essa è da intendersi in senso temporale, ma in particolare come dislocazione che distribuisca il processo di cura su vari soggetti, gli operatori e non, e riconosca all’apparato psichico la sua proprietà fondamentale: la possibilità di rappresentazione dello spazio esteso in due o più punti, sedi del lavoro psichico e pratico.
Allo stesso modo in cui la protesi, nel campo della salute mentale, introduce quel carattere esterno ed estetico, assistiamo oggi allo sviluppo di un grande interesse per le arti terapie, curiosamente perfino da parte di coloro che definiremmo fautori del mondo interno: oggetto (interno), spazio (mentale), famiglia (genitore interno) e altro intra. Viceversa è giusto nello spazio della realtà esterna che si dà l’inter(e)vento sociale, è lì che diviene possibile l’incontro con l’altro, regolato dalla norma/barriera e dalle leggi della fisica – di una sua branca, l’ottica – cui soggiace in qualche modo anche l’apparato psichico.
Quando si parla di corpo e di altre estensioni spaziali bisogna sempre precisare: rappresentazione esterna (del corpo), c’è un rapporto ramificato e salutare tra estetica (della protesi) e processi di risanamento, ovvero politiche di intervento socio-sanitarie.
DALL’IDENTITA’ PROTESICA ALL’AVVENTO EPOCALE DEL CYBORG, SOGGETTO A CONFIGURAZIONE CIBERNETICA
Abbiamo visto come la protesi (notes magico, bastone o deambulatore, dentiera, occhiali, tutore articolare e auricolare oltre ai sempre più numerosi strumenti che ci si offrono) dalla periferia ha mutato la visione dell’uomo contemporaneo: non più nudo, ma attrezzato, strutturalmente mancante e congenitamente artificial/artificioso.
Un successivo passaggio registra la presenza sulla scena sociale dell’elemento cibernetico. Ulteriore avanzamento nella direzione dell’artificio, arriva a segnare una svolta epocale. Dopo l’idea freudiana e la nozione di Finzi Ghisi, ecco il soggetto cyborg spaesato, spogliato di identità, privato del supporto metallico o ligneo, alienato nell’impossibilità di ammalarsi in modo classico e rituffato al centro di una corporeità iper-visualizzata (impossibile non scovare l’isteria e, se non è stata individuata, allora non ne esiste nemmeno la categoria).
Ma il piccolo processore o la sostanza di sintesi chimica, la lega metallica inesistente in natura non sono oggetti neutri, né fisicamente distanti dal soggetto. Non si mantengono ai margini del corpo, non sono più supporti esterni visibili e smontabili, non pulsano più accanto e addosso. Essi penetrano all’interno dei confini somatici, si insinuano e si insediano al centro della corporeità, nel cuore della scena organica: cybernetic organism o, meglio, organic cybernetic.
IL CYBORG, dove il corpo umano diviene effetto dell’intelligenza artificiale, prodotto e appendice dove non c’è più sostantivo né attributo, non centro né periferia, non padrone né servo, non fine né principio. L’intreccio (corpo umano-componente cibernetico) non prevede un apparato psichico, taglia fuori un’etica della scelta, lavora nell’immediato e nel necessario. Le reti neurali sono alle porte o già al di là della soglia.
La diffusione ubiquitaria di tale condizione – siamo tutti cyborg o lo saremo molto presto – dissolve benessere e sofferenza, elimina la distinzione tra normalità e follia, contribuisce a formare campi di ignoto psico-fisico nella presunzione di una conoscenza e padronanza della prevenzione come della cura.
Non più il design della protesi che ci riguarda, anche se noi ci pensiamo senza mutilazioni presenti e future. L’oggetto insediato nell’interno del corpo non rientra più nell’accezione di protesi, ma designa gli individui a configurazione cyborg. Con questo termine intendiamo i portatori di endoprotesi, trapianti, by-pass, microchip regolatori delle funzioni organiche e coloro che assumono – specie in cronico – psicofarmaci. Lo scopo sarebbe sempre quello di supportare o di potenziare alcune particolare funzioni umane. Ma vedremo che le cose acquisiscono ben altra complessità.
UN POSSIBILE APPRODO: L’IDENTITA’ IBRIDA
L’identità ibrida può rappresentare un compromesso, una fase finale all’interno di un processo evolutivo. Partendo da un identità che abbiamo definito protesica, infatti, si arriva ad una accettazione degli elementi cibernetici che arricchiscono l’identità stessa. Attraverso questa integrazione si genera un’identità ibrida. Nel caso dei cyborg, invece, l’elemento dominante è un’angoscia di tipo abbandonico.
Una sua variante è la configurazione cybord, un soggetto che nella configurazione cibernetica è divenuto border e oscilla tra la psicosi e la perversione. Il cybord, diversamente dal cyborg, accusa una sofferenza nella quale risulta estremamente complesso sapere quale forma di identità venga percepita e processata dal soggetto.
IL DIGITALE E L’ANALOGICO
Le modalità di funzionamento del soggetto cyborg che procedono per simulazioni concrete, possono essere paragonate a quelle utilizzate nell’ambito del digitale. Queste sono diverse da quelle utilizzate nel soggetto con identità protesica che, al contrario, procede per rappresentazioni. Allo stesso modo si differenziano anche il digitale e l’analogico.
In un articolo di Jean Baudrillard “Il digitale e l’egemonico” (Internazionale 674, 29 dicembre 2006) è possibile suddividere digitale-cyborg e analogico-protesico. In questo scritto viene compiuta un’analisi del passaggio alla fotografia digitale che implica la mancanza del negativo, dell’oggetto e della distanza e quindi di tutto il lavoro di rappresentazione ed elaborazione che, invece, fa parte della fotografia che possiamo definire di tipo analogico, dunque vicina all’identità protesica e ai processi di lavorazione che essa comporta: negativo e pellicola, sviluppo, montaggio, trucco, restauro e ritocco. Con il digitale si arriva (o si presume di arrivare) direttamente alla realtà, al concreto come nel caso dei cyborg e delle loro simulazioni concrete e azioni dirette in cui non è prevista la forma della rappresentazione, né esterna né mentale.
“La fotografia tradizionale è un’immagine prodotta dal mondo, che implica ancora, grazie al tramite della pellicola, una dimensione della rappresentazione. L’immagine digitale invece esce direttamente dallo schermo e s’immerge nella massa di tutte le altre immagini uscite dallo schermo. E’ parte del flusso ed è schiava del funzionamento automatico dell’apparecchio” (Jean Baudrillard , 2006, pag. 44).
Il procedimento digitale rappresenta un modello del funzionamento mentale del cyborg. La foto digitale, la cui immediatezza esclude ogni rappresentazione, vuole arrivare ad un ritratto fedele della realtà. Essa, quindi porta ad una sorta di replicante dell’oggetto. Oggetto che, in tal modo, perderebbe la sua autenticità e sostanza. Non solo viene smaterializzato l’oggetto, l’evento, ma anche il soggetto stesso poiché si passa dalla macchina alla realtà senza che ci sia la mediazione e l’elaborazione da parte della mente del soggetto. In questo modo si perde la categoria del mentale.
Il digitale comporta non solo un ritratto fedele della realtà, ma anche una sua manipolazione.
L’analogico-protesico e il digitale-cyborg usano codici diversi. Il primo ha un codice di riproduzione della traccia che si avvale di oggetti concreti (il negativo, il nastro), mentre il secondo utilizza una procedura computerizzata. L’analogico implica perciò la rappresentazione (interna ed esterna, esterna più che interna), rappresentazione che è legata al mentale (senza una mente che si auto-rappresenta non è possibile una rappresentazione). A sua volta il mentale è connesso con il corpo protesizzato. Questa può essere una definizione di identità perché comprende il modo in cui il soggetto si rappresenta il mondo, l’altro e se stesso (auto-rappresentazione e quindi coscienza e inconscio che fanno parte del mentale). Il mentale è sostenuto dal corpo-protesi. Tutto ciò è in rapporto osmotico con l’altro, la cosa, la cultura e la società.
Schematicamente:
Con il digitale, invece, svanirebbe il mentale. Si può avanzare l’obiezione che, pur eliminando il mentale, il corpo-protesi esista ancora. Ma in questo caso si tratta del tipo di identità che in precedenza abbiamo indicato come ibrido. Nel caso del digitale-cyborg (dove non abbiamo un supporto materiale come il nastro), infatti, la tendenza all’immateriale e al virtuale fa sì che svanisca anche il corpo. Svanendo il mentale svanisce anche il corpo-protesi. Gli eventi, infatti non vengono registrati nella mente e nel corpo, ma tutto viene demandato alla macchina senza mediazione (ad esempio nelle video-conferenze il corpo svanisce).
Anche Baudrillard afferma, in relazione all’egemonia del digitale che, non solo viene meno il mentale, ma l’oggetto stesso, a causa di questa ricerca ossessiva della realtà, perde di significato e, inoltre, viene meno la relazione tra soggetto e oggetto:
“Esistono ancora immagini alternative che potrebbero sfuggire a questa doppia uccisione simbolica, a questa doppia violenza, quella che esercitano e quella che subiscono, per ritrovare una potenza propria?immagini che resistano alla violenza dell’informazione e della comunicazione per ritro vare, al di là della significazione forzata e della deviazione estetica, l’evento puro dell’immagine?prendiamo la guerra, per esempio: perché le immagini siano un’autentica informazione, bisognerebbe che fossero differenti dalla guerra. Ma oggi sono diventate altrettanto virtuali della guerra, e quindi la loro violenza specifica si aggiunge alla violenza specifica della guerra. D’altra parte, per la loro onnipresenza, per la regola che oggi tutto è visibile, le immagini, le nostre immagini attuali sono diventate sostanzialmente pornografiche, e sposano quindi spontaneamente il lato pornografico della guerra.
C’è un virtuale cambiamento di regime dell’immagine nel contesto mediatico e spettacolare: tutte le immagini che ci arrivano attraverso il canale mediatico non sono più immagini, non rientrano più nello stadio dello specchio e della rappresentazione, ma nello stadio di uno schermo di una percezione immediata e tattile, come aveva già capito Marshall MacLuhan. Non permettono più la distanza né il giudizio critico. Senza distanza, niente rappresentazione; senza rappresentazione, niente giudizio; quindi, a dire il vero, nessun messaggio, né informazione oggettiva, né sensibilizzazione (politica o di altro tipo). E’ l’illusione realista e razionale […]. E’ l’illusione di una realtà trasmessa fedelmente dalle immagini.
Noi crediamo di vedere nella fotografia il riflesso del nostro mondo, ma al contrario, le nostre immagini in tempo reale esorcizzano questo mondo attraverso la finzione istantanea della sua rappresentazione. Perché il messaggio passi, perché abbia l’efficacia sensibile dell’immagine, è necessario un transfert sull’immagine e che questo transfer sia deciso. Serve ancora e sempre una distanza, ma noi stiamo, con i media e il tempo reale, nella promiscuità totale […]” (Jean Baudrillard, 2006, pag 47).
“Il mondo e la visione del mondo cambiano. In questi ultimi tempi di progresso tecnologico ultrarapido è nata l’idea assurda di “liberare” il reale con l’immagine, e di “liberare”l’immagine con il digitale. La “liberazione”del reale e dell’immagine passerebbero attraverso la profusione e la proliferazione. Questo significa dimenticare la sfida, il rischio del passaggio all’atto fotografico, la fragilità e l’ambivalenza del rapporto con l’oggetto; ma sarebbe lo “scacco” dello sguardo: tutto ciò è essenziale alla fotografia!Non si libera la fotografia!” (Jean Baudrillard , 2006, pag. 45).
Il carattere rassicurante dell’elemento analogico-protesico rispetto a quello digitale-cyborg è fortemente influenzato dalla cultura. Gli adolescenti, infatti, tendenzialmente prediligono componenti cibernetiche (per esempio gli apparecchi MP3), mentre persone più adulte si affidano a quelle protesiche (per esempio audiocassetta o VHS) e questo perché nel primo caso ci troviamo di fronte a configurazioni cyborg, mentre nel secondo ad identità protesiche. Le difficoltà dell’adulto rispetto all’innesto di elementi cibernetici è probabile che sia presente inconsciamente anche nell’adolescente ( a configurazione cibernetica) il quale non lo ammette perché è immerso in una cultura cyborg che impone l’accettazione di questi elementi: la cultura è un imperativo (ad esempio il piercing non è una scelta, va fatto e non si prova dolore).
Procedimenti analogici e digitali riguardano anche l’informazione. Essa può essere un dato culturale elaborato dal singolo. Può avere due vie di trasmissione:
- genetica
- non genetica
A sua volta la trasmissione non genetica permette la conservazione della memoria attraverso due procedimenti:
- analogico
- digitale
Per salvare e decodificare l’informazione codificata con procedimenti digitali occorrono delle procedure che di solito sono più complesse anche perché passano attraverso un altro cervello che è quello elettronico. Quindi, la differenza tra salvataggio e trasmissione della memoria analogica e salvataggio e trasmissione della memoria digitale consiste nel fatto che la seconda è processata dal processore elettronico del computer. L’ordine mentale, in questo caso, viene preceduto da quello della macchina. Si potrebbe pensare che così il computer diventi una protesi ma questo non è esatto, infatti, la protesi (oltre al fatto che di solito è fatta di materiali naturali e non di sintesi), non è in grado di organizzare la materia, mentre nel cyborg questo avviene anche se non si arriva mai alla coscienza.
Ma che cosa distingue un cyborg da un soggetto con identità protesica? Che cosa porta all’accettazione o meno dell’elemento cibernetico o protesico? Nelle righe a seguire forniremo la descrizione di tre esperienze reali a confronto, le quali ben rappresentano le modalità utilizzate dai soggetti ad identità protesica e da soggetti cyborg. Si possono fare ulteriori considerazioni rispetto ai fattori che influiscono sull’accettazione degli elementi cibernetici o protesici. Se ne possono identificare principalmente due:
- consapevolezza
- cultura
Benché la consapevolezza da sola non basti a costituire un’identità protesica essa, comunque, può rappresentare un punto fondamentale per un lavoro terapeutico.
Per comprendere come la cultura (fattore già trattato rispetto alla scelta di elementi cibernetici o di protesi) possa influenzare l’accettazione di protesi o elementi cibernetici, può essere utile fare degli esempi: l’apparecchio ortodontico che in passato durante l’infanzia era fonte di grande vergogna per il bambino che tendeva, perciò, a rifiutarlo, oggi viene accettato con maggiore facilità e lo stesso vale per alcuni interventi di chirurgia che ormai sono diventati sempre più comuni, diffusi e socialmente accettabili (e quindi accettati dal soggetto).
Alla luce di ciò che è stato detto finora si può, infine, riflettere anche su come, nelle diverse fasi del ciclo evolutivo, si utilizza l’elemento protesico e si vive la configurazione cibernetica dato che esistono delle differenze sostanziali in tal senso, ad esempio tra l’anziano e il bambino o l’adolescente.
Possiamo considerare l’adolescenza in cui il concetto di identità risulta centrale. E’ in questa fase della vita, infatti, che il soggetto inizia concretamente a costruirsi un suo modo di essere attraverso la sperimentazione di se stesso e le varie scelte che possono risultare anche estreme. La sua identità è tuttavia in divenire, ha bisogno di essere sostenuta e per farlo ricorre all’elemento protesico o cibernetico.
Il piercing, per esempio, è a cavallo tra l’elemento protesico e quello cibernetico, è sia dentro che fuori. Questo rappresenta in modo molto concreto la situazione che vive l’adolescente infatti, proprio in questo stadio della vita l’antitesi dentro/fuori e la continua oscillazione tra questi due poli è predominante: ad esempio inizia a proiettarsi verso l’esterno, gli amici, la società per cercare nuovi modi di essere, pur rimanendo legato al suo mondo familiare da cui dipende ancora e che ancora rappresenta un’importante fonte di sostegno per la sua identità. Si può, quindi, considerare la protesi come una sorta di esoscheletro che sorregge dall’esterno l’identità e l’elemento cibernetico come un endoscheletro che agisce dall’interno. Il piercing è dotato di una duplice valenza: fisica, in quanto il metallo per essere innestato deve trafiggere la carne; e una valenza psichica e mentale relativa al significato di penetrazione/riverginazione, che comprende la possibilità di guarigione dal trauma, come evento esistenziale e antropologico prima che come processo terapeutico.
Svariati autori hanno trattato ampiamente l’argomento relativo al ruolo del piercing in adolescenza come supporto dell’identità. In effetti, la storia del piercing come del tatuaggio, ha origini antichissime e tribali. Nelle società primitive esso possedeva valore iniziatico e di differenziazione dei ruoli e delle funzioni del soggetto all’interno del gruppo.
Il significato del piercing nel contesto occidentale odierno non è mutato: gli adolescenti utilizzano il piercing per confermare (e completare) la propria identità agli occhi del mondo, soprattutto a quello adulto da cui il giovane vuole prendere le distanze, ma anche per differenziare e rimarcare se stessi dai pari. Questo gli permette di essere uguale ma, contemporaneamente diverso, ai soggetti inseriti nel gruppo d’appartenenza.
Pare, però, di fondamentale importanza aggiungere qualcosa in più rispetto a ciò che la letteratura propone. Il piercing, con la sua doppia valenza sia di protesi sia di elemento cibernetico, ha una funzione di segnalare esternamente ciò che si trova all’interno (seme-frutto-seme). E’ questa la ragione per cui il piercing, dimenticato per anni dal mondo occidentale, oggi è stato reintegrato diventando persino una moda diffusa.
Come già precedentemente accennato, illustriamo di seguito tre casi trattai dalla cronaca attuale, di persone che hano vissuto l’esperienza dell’amputazione degli arti.
Il primo caso è quello di Alex Zanardi, pilota bolognese che, in seguito ad un incidente in pista, il 15 settembre 2001 ha subito l’amputazione degli arti inferiori. Scrivono di lui:”(…) Alex, però, è un uomo dotato di un carattere di ferro, non senza fatica si è ripreso, si è adattato a quelle brutte (ma per lui salvifiche) protesi e il suo sorriso è tornato a splendere sulle piste, con grande gioia degli appassionati e di chi lo ha sempre amato.
Con l’aiuto di Gianluca Gasparini, giornalista della Gazzetta dello Sport, Alex ha scritto … Però, Zanardi da Castelmaggiore! (2003), un libro che ripercorre la sua vita, la sua carriera e soprattutto il
suo straordinario recupero. Il ritorno di Alex Zanardi ha commosso l’intero mondo sportivo ancor più del dramma vissuto per l’incidente. Da sempre nobile e gentile nell’animo, Alex non solo ha dimostrato tenacia e determinazione, ma una grande umiltà, voglia di vivere e un immenso amore per il suo sport. Per tutte le sfortunate vittime di incidenti analoghi al suo, per i loro amici e famigliari, e per chiunque ami lo spirito sportivo, Alex Zanardi è un eroe, un esempio e un punto di riferimento”. (Mario Gaiba)(www.formula1news.it/personaggi/zanardi.htm).
Zanardi parla della sua esperienza in questi termini: “Sono una persona fortunata. Doppiamente. Con quello che mi è successo non mi sono mai fermato a riflettere sulle cose che facevo prima con le gambe che Madre Natura mi aveva dato in origine, ma fin da subito ho pensato in modo automatico unicamente come poter fare esattamente le cose che facevo prima nella mia nuova condizione. Dico doppiamente però, perché oltre ad aver avuto in dote dal buon Dio (o forse dalla Mamma, perché anche lei è fatta così) questa invidiabile capacità, non ho mai nemmeno dovuto affrontare l’imbarazzo che si genera nel rapporto con gli altri alla scoperta dell’handicap.
Quante volte infatti vi sarà capitato di vedere una persona sulla sedia a rotelle e trovarvi nella difficile situazione di non sapere come comportarvi? “Cosa faccio, gli apro la porta?…e se poi si offende perché vuol dimostrare di poter fare da solo?…Allora la lascio chiusa. Sì, ma se poi si offende perché non lo aiuto?”. Che dilemma, a me è successo prima dell’incidente, ma riconosco che oggi la mia notorietà tende ad eliminare questa barriera nel rapporto con gli altri.
Anzi,la gente mi cerca, si inventa una scusa qualsiasi per scambiare due chiacchiere e di certo tendo ad ispirare in loro tutto tranne che compassione.
Eppure ci sono momenti in cui anche Alex Zanardi si vergogna un po’ della sua menomazione. Momenti in cui mi è difficile mostrarmi agli altri senza quello scudo che sono oramai diventate le mie protesi e questo mi limita”(www.alex-zanardi.com).
La seconda storia è quella di Oscar Pistorius, “un corridore al quale in tenera età hanno amputato entrambe le gambe a causa di una malformazione congenita, al fine di permettergli l’innesto di un paio di protesi in fibra di carbonio: ha corso i 400 metri piani in 46.56 secondi, ed i 100 metri in 10.91. Tempi di tutto rispetto, che gli fanno desiderare di competere alle prossime Olimpiadi nei 400 metri piani. La velocità non è un problema: piuttosto, le sue protesi sono diventate oggetto di contenzioso. “Blade Runner”, così è stato soprannominato Oscar, deve vedersela con problemi ulteriori rispetto alla sua disabilità.
La International Association of Athletics Federations (IAAF) ha concluso recentemente che le gambe artificiali di Pistorius gli forniscono un decisivo vantaggio rispetto ad atleti che corrono con “gambe tradizionali”. E’ ciò che si dice un “aiuto tecnico”: di conseguenza, l’atleta non è ammissibile alle Olimpiadi del 2008 nel caso si qualifichi. Pistorius ritiene questa una forma di discriminazione: “c’e’ paura di cambiare”, dice, “il mio talento nella corsa è naturale, ed è il risultato di duro lavoro e dedizione allo sport”. La IAAF contesta che le gambe artificiali di Pistorius non hanno l’aspetto di gambe umane, e per la loro forma gli permettono un tipo di movimento diverso dalla corsa tradizionale: è un nuovo tipo di locomozione, di fatto”.
(http://futuroprossimo.blogosfere.it/2007/04/il-mondo-e-pronto-per-il-cyber-atleta.htlm).
La terza storia è molto diversa dalle precedenti: si tratta, anche in questo caso, di una vicenda di cui si è occupata molto la cronaca, quella del cinquantenne neozelandese Clint Hallam, che “fu il primo uomo cui sia stato trapiantato un braccio [nel 1998]. Grande entusiasmo in tutto il mondo per l’evento medico che dava speranza ai molti amputati sul lavoro, in incidenti stradali o per mille altre cause di poter recuperare l’arto.
La pesantezza delle cure e dei medicinali antirigetto avevano però finito per estenuare Hallam che già nella scorsa estate aveva avanzata la richiesta di essere amputato del braccio appena trapiantato. Allora era stato dissuaso ma poi la situazione era divenuta per lui talmente intollerabile da fargli chiedere con fermezza di essere privato del braccio che, sosteneva, era divenuto per lui un corpo estraneo. Per costringere i medici ad intervenire aveva perfino smesso di prendere i medicinali antirigetto al punto di mettere a rischio la sua stessa vita”(http://www.prodigio.it/articoli.asp)
Tre storie di mancanza emblematiche con esiti tanto diversi: perché? Che cosa ha reso possibile l’accettazione delle protesi nel caso di Pistorius e Zanardi e che cosa ha determinato il rifiuto del nuovo arto in Hallam?
Pistorius e Zanardi hanno utilizzato le loro protesi per ricominciare da capo, si sono costruiti una nuova identità a partire da esse per inseguire i loro sogni. Stiamo parlando di due soggetti con identità protesica, mentre il rifiuto di Hallam per la sua mano trapiantata porta a pensare ci si tratti di un soggetto cyborg che non ha potuto appoggiarsi alla sua identità protesica per accettare la protesi. E’ proprio il recupero (o restauro) dell’identità protesica, infatti, a rendere possibile per il soggetto a configurazione cyborg l’accettazione del componente cibernetico o l’elemento protesico.
Il soggetto, quindi, accetta questo elemento perché fa riferimento alla propria identità protesica alla propria mancanza di base (“Non basto a me stesso”). Una sostituzione totale di tale identità, infatti porta ad una configurazione cyborg caratterizzata da una solo apparente invulnerabilità. La fragilità del cyborg deriva dall’assenza di un punto di innesto per la protesi intesa come difesa e come componente di integrità del soggetto. Risulta quindi centrale la tematica relativa al rapporto tra l’Io e l’Altro.
“In quanto cyborg io sono estraneo a me stesso, sono alieno rispetto a ciò in cui mi riconosco e già sono altro, altro da me”.
Ma se io sono altro, l’altro è me? L’altro ha preso il mio posto? Mi ha spiazzato per sempre dalla mia natura-lezza, spontaneità, autenticità? IO sono l’elemento cibernetico, mi sono così tanto robotizzato -Io robot – e non posso che identificarmi totalmente nel sintetico, la mia è tutta intelligenza artificiale. Un Artificial Intelligence che rigetta qualsiasi artificio protesico, propria dell’identità comune. Un’identità che subliminale si sa protesica anche laddove non lo esplicita. E forse protesi è giusto questo implicito, non dichiarato, procedurale, “al lavoro”.
L’elemento cibernetico che, a differenza della protesi, è un elemento nuovo, di sintesi, non solo si poggia sull’identità protesica, ma la arricchirebbe. Esso porta ad un’accettazione e ad una integrazione a livello di identità. Questo fa si che non si diventi cyborg dove predomina un angoscia che possiamo definire aliena, differente rispetto a quella protesica. Per capire tale differenza si parte dal presupposto che mentre l’identità protesica lavora per rappresentazioni e quindi si avvale di elaborazioni e processi di pensiero, il cyborg lavora per simulazioni, ad esempio agiti.
Questa sua incapacità di rappresentazione fa sì che l’angoscia aliena che lo caratterizza non sia curabile con la psicoterapia: si può ricorrere solo ai farmaci che consentono di contenere, ma non di condurre processi di lavorazione. Il caso di Hallam consente di vedere come il cyborg proceda per simulazioni concrete e non per rappresentazioni. Quest’uomo, infatti non era in grado di rappresentarsi né la mancanza (ha addirittura accettato il braccio di un uomo morto), né la presenza dell’elemento aggiuntivo ( ha chiesto la rimozione del braccio “nuovo”).
Infine si ricorda la necessità di non soffermarsi sul riduttivo significato di protesi come potenziamento o sostituzione delle capacità umane ma si ponga, altresì, enfasi sul ruolo attivo esercitato dalla protesi in merito alla costituzione dell’identità e al suo carattere di universalità, nonché sull’effetto restitutivo di una sostenibilità della condizione cyborg.
Bibliografia
- Baudrillard Jean, Il digitale e l’egemonico, Internazionale 674, 29 dicembre 2006, p. 44-47.
- Freud S., Nota sul notes magico, Opere, Torino, Bollati Boringhieri, vol. X.
- Iossa Fasano A., Una casa pulita e ordinata. Trama e rappresentazione della quotidianità nell’opera di Johannes Vermeer. Tratto da collana “Il piccolo Hans”, Ambulatorio, nuove forme dell’operare psicoanalitico ¾. Ed. Moretti & Vitali.
- Iossa Fasano A., Semi d’artificio. Tratto da “Chaosmos, critica cura teoria 2004”. Ed. Filema.
- Iossa Fasano A., Teoria e pratica della supervisione. Tra innesto della protesi e identità cyborg tratto da Scaratti G., Fusè O., Bertani A., “La supervisione dell’educatore professionale”. Ed. Franco Angeli
- Pietropolli Charmet Gustavo, Marcazzan Alessandra, Piercing e tatuaggi. Manipolazioni del corpo in adolescenza. Ed. Franco Angeli, Milano, 2000.
- Tanzi G. /, Roberto S., Cyber movies: Cyborg, hackers, mondi virtuali: Guida al cinema del terzo millennio.
Ed. Bologna: Tunnel 1997 - Virginia Finzi Ghisi, Didascalie per un disegno della clinica psicoanalitica. Chiarimenti sulla nozione di protesi, in Saggi p. 290, Ed. Moretti & Vitali
- Virginia Finzi Ghisi, La protesi va alla guerra, in Saggi p.349, Ed. Moretti & Vitali
Sitografia
- Zanardi A., www.alex-zanardi.com.
- http://futuroprossimo.blogosfere.it/2007/04/il-mondo-e-pronto-per-il-cyber-atleta.htlm.
- http://www.prodigio.it/articoli.asp
- Gaiba M., http://www.formula1news.it/personaggi/zanardi.htm.
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